La deriva della nave fantasma

Nave fantasma: le origini del mito, e le vicende più raccapriccianti

Ispirati dal recente naufragio della nave fantasma Lyubov Orlova,  In questa serie di articoli abbiamo pensato di raccontarvi le storie delle navi fantasma più inquietanti e celebri tramandatesi nel corso dei secoli. Alcune di queste, come quelle della nave fantasma Olandese Volante, o della mitica Mary Celeste, sono ammantate di leggenda e mistero, al punto da rendere ardua una fedele ricostruzione storica degli eventi che misero fine alle vite degli uomini che si trovavano a bordo. Con il termine nave fantasma ci si riferisce a una nave che per cause ignote vaga alla deriva fra gli oceani, priva di un equipaggio e che di tanto in tanto, dal nulla, riappare sinistra nelle freddi notti primaverili terrorizzando i viaggiatori d’alto mare. Anticamente (senza andare molto lontano anche fino a metà del 900) quando si verificava un naufragio con conseguenze fatali per l’equipaggio, era molto difficile ricostruirne la storia, così sui misteri che quegli uomini svaniti nel nulla si erano portati con sé la fantasia popolare iniziava a fantasticare. Le navi venivano ritrovate a largo, senza nessuno a bordo, avvolte da una patina cupa che terrorizzava i marinai, che poi tornavano a terra aggiungendo particolari (talvolta inventati, ma talvolta no, come vedremo) agghiaccianti. Ripercorriamo nei dettagli le vicende e i fatti relativi alle navi fantasma più famose.

L’Olandese Volante

“Alle quattro del mattino incrociammo l’Olandese Volante. Uno strano bagliore fosforescente l’avvolgeva, come se fosse una nave fantasma: entro questo alone spiccavano a 200 iarde di distanza gli alberi, le antenne e le vele di un brigantino, che apparve mentre ci affiancava a babordo, dove l’ufficiale di guardia lo vide dal ponte, come pure il guardiamarina di cassero, che fu subito mandato al castello di prua, ma arrivato colà non era visibile vestigia o segno alcuno di nave materiale, né in vicinanza né per tutto l’orizzonte, essendo la notte chiara e il mare calmo.”

L’inquietante apparizione fu descritta con queste parole dal guardiamarina della Royal Navy, allora sedicenne, imbarcato sulla nave da guerra inglese Inconstant in navigazione al largo della costa australiana l’undici luglio del 1881. Il resoconto avrebbe potuto essere attribuito all’età del ragazzo, alla sua inesperienza e alla spiccata fantasia giovanile, eccetto per un piccolo particolare: il guardiamarina altri non era che il principe Giorgio, il futuro re Giorgio V d’Inghilterra.
Il vascello fu visto anche da altri tredici uomini a bordo dell’Inconstant e di altre due navi sorelle. Quello stesso giorno, più tardi, il marinaio che per primo l’aveva avvistata morì precipitando dall’albero. Alcune settimane dopo morì l’ammiraglio della flotta.
Nel corso degli anni la credenza diffusa tra i lupi di mare secondo cui chiunque avvistasse l’Olandese Volante avrebbe subito disgrazie ha avuto frequenti conferme. Che cos’era dunque – o chi era – l’Olandese Volante?
Il nome risale al XVII secolo, quando Hendrik van der Decken, un avido capitano olandese senza scrupoli, fece vela da Amsterdam per le Indie Occidentali in cerca di fortuna. Il viaggio stava andando bene fino a che l’olandese si trovo a doppiare il Capo di Buona Speranza. Scoppiò una violentissima tempesta che ridusse a brandelli le vele e danneggiò seriamente il fasciame del veliero. Il capitano con ostinazione diede ordine di proseguire, ignorando le suppliche dell’equipaggio. Non sappiamo cosa sia stato della nave e dell’equipaggio ma, secondo la leggenda, il demonio in persona apparve al capitano incoraggiandolo a sfidare la volontà di Dio e a dirigere la nave direttamente verso la tempesta. L’olandese accettò, attirando sul suo capo la condanna dell’Onnipotente: lui e la sua nave di morti viventi avrebbero vagato per i mari senza mai toccare terra, fino al giorno del giudizio.
Quasi tutti gli avvistamenti dell’Olandese Volante sono stati compiuti nella zona dove, secondo la leggenda, la nave è scomparsa, attorno al Capo di Buona Speranza. Il vascello fantasma è stato intravisto anche da riva.
Nel marzo del 1939 almeno cento persone videro il fantasma dell’olandese. Ai bagnanti che si trovavano sulla spiaggia Glencairn a False Bay, a sud ovest di Città del Capo, apparve nel calore del giorno un vascello in perfetto ordine. Attraversò la baia a vele spiegate anche se non c’era un alito di vento. La nve sembrava diretta verso una baia lontana e isolata. Ma, proprio mentre saliva l’eccitazione della piccola folla, il misterioso Olandese Volante scomparve, all’improvviso come era apparso.
Nel settembre del 1942 quattro persone si stavano rilassando sul terrazzo della loro casa di Mouille Point, a Città del Capo, quando avvistarono un’antica nave a vela diretta verso Table Bay. Ne seguirono la rotta per circa quindici minuti prima che scomparisse alla vista dietro a Robben Island. La storia dell’Olandese Volante è fantasiosa quanto basta. Ha ispirato anche una famosa opera di Wagner, il vascello fantasma. Ma se annoveriamo pure un futuro re d’Inghilterra tra i testimoni oculari della nave fantasma, è più difficile attribuire la più amata leggenda del mare a un semplice racconto di marinai.

La nave fantasma Ourang Medan

L’SOS fu raccolto da una dozzina di navi. Il messaggio diceva:”Capitano e ufficiali morti. Tutto l’equipaggio morto o moribondo“, e successivamente “la morte è vicina anche per me“. Poi il silenzio.
Era un giorno perfetto del febbraio 1948 e fra tutte le imbarcazioni che avevano raccolto lo strano messaggio radio, solamente una riuscì a identificare la nave in difficoltà e a rintracciarne con precisione la posizione: si trattava di un cargo olandese, l’Ourang Medan, diretto a Giacarta, in Indonesia, attraverso lo stretto di Malacca.
Dopo tre ore la prima imbarcazione di salvataggio affiancava la Ourang Medan. Un uomo dell’equipaggio raccontò in seguito: “Le acque erano talmente infestate dagli squali, che sembrava che tutti quelli del golfo del Bengala avessero percepito l’odore di morte.”
Quando i segnali con le bandierine e quelli via radio non ebbero risposta, fu lanciata una scialuppa con una squadra di salvataggio. Saliti a bordo, trovarono tutti gli ufficiali raggruppati nella sala nautica, come se il capitano li avesse convocati per una riunione di guerra contro un invisibile disastro. Erano tutti morti.
Sembrava che fossero morti a pochi secondi l’uno dall’altro, gli occhi sbarrati dal terrore e il corpo già irrigidito nel rigor mortis; alcuni con le braccia puntavano verso il cielo.
Anche i marinai, i cui cadaveri erano sparsi sul ponte, erano morti allo stesso modo. Un medico salito con la pattuglia non riscontrò alcun segno di avvelenamento, asfissia o malattia, ma sembrava che tutti sapessero di andare incontro alla morte, anche il cane di bordo: fu ritrovato sottocoperta con le zampe in aria e i denti serrati in un ringhio muto. Nella cabina radio il radiotelegrafo era riverso sulla tastiera muta. La nave venuta in soccorso tentò di trainare il cargo olandese nel porto più vicino, ma quando paranco e fune erano stati apprestati, da una delle cisterne fuoriuscì una zaffata di fumo oleoso. Sapendo bene che non avrebbero potuto contenere le fiamme se non utilizzando pompe e motori, gli uomini del salvataggio si precipitarono verso la propria nave, appena in tempo per tagliare la fune prima che il cargo esplodesse.
L’esplosione ne scaraventò i resti per un raggio di un quarto di miglio, uccidendo anche degli squali. Quel che restava della Ourang Medan s’inabissò.
Nella breve inchiesta che seguì, il medico riferì che i marinai erano morte per cause sconosciute. Per quanto il verdetto ufficiale fosse di “decesso per infortunio”, il mistero della nave fantasma Ourang Medan è rimasto irrisolto.

L’eterno viaggio dell’Octavius

La baleniera del New England Herald stava navigando al largo delle coste occidentali della Groenlandia, oltre il circolo Polare Artico. Dal ponte il capitano Warren fissò lo sguardo verso una goletta a tre alberi alla deriva tra i banchi di ghiaccio come una nave fantasma. Il capitano prese con sé in una scialuppa otto uomini e si portò verso il vascello silenzioso. Sotto gli strati di ghiaccio riuscirono a leggere il nome della nave: Octavius.
Warren assieme a quattro uomini salì a bordo. Attraversando la coperta deserta e rivestita di uno strato di muschio, aprirono una porta e discesero negli alloggi dell’equipaggio. Qui trovarono i corpi di ventotto uomini, tutti nelle loro cuccette, avvolti da pesanti coperte.
Si portarono con difficoltà verso la cabina del capitano a poppa. L’incubo non era finito. Il capitano dell’Octavius era riverso sul diario di bordo, con la penna ancora nella mano destra, come se si fosse addormentato mentre scriveva. Su di un letto contro una parete giaceva una donna bionda morta congelata sotto una pila di coperte. E in un angolo c’erano un marinaio e un bambino i cui corpi raccontavano una tragica sorte.
Il marinaio era seduto con l’acciarino ben saldo fra le mani congelate. Davanti a lui c’era un mucchietto di trucioli, a muta testimonianza del fuoco che non si era acceso. Il bambino gli era accoccolato vicino, con il viso affondato nella giacca, come avesse cercato così riparo dal freddo.
Gli uomini dell’Herald ritornarono sul ponte, riportando con loro il diario di bordo della goletta come prova documentaria di quanto avevano visto. Ritornati a bordo della baleniera, non poterono che assistere impotenti alla vista della goletta abbandonata che si allontanava lentamente alla deriva tra gli iceberg, per scomparire per sempre.
Fu un bene aver recuperato il diario di bordo. Il mondo sicuramente non avrebbe creduto molto facilmente alla loro storia, che resta comunque uno dei più strani racconti di mare.
L’ultima annotazione nel diario di bordo portava la data dell’11 settembre 1762. Il capitano, ormai in punto di morte, scrisse che L’Octavius era prigioniero dei ghiacci da diciassette giorni. Il fuoco si era spento ed era impossibile riaccenderlo. Le coordinate della nave erano, scriveva il capitano, in quel momento di 160° latitudine ovest e 75° longitudine nord.
Il capitano Warren controllò la carta nautica incredulo. In quegli ultimi momenti in cui c’era ancora vita su quella nave, la goletta era prigioniera nel mar Glaciale Artico a nord di Punta Barrow, in Alaska, a migliaia di miglia dal punto in cui era stata incrociata dalla baleniera. Guidata da forze sconosciute, la goletta ridotta ormai a un relito aveva coperto quella distanza dirigendosi verso est, attraverso infinite distese di ghiacci, finché era giunta all’Oceano Atlantico. Così facendo, aveva realizzato uno dei sogni di tutti i lupi di mare. Per secoli gli uomini hanno cercato il leggendario passaggio di nord ovest, una rotta navigabile nel Mar Glaciale Artico che congiungesse l’Atlantico con il Pacifico. Durante quello storico viaggio durato tredici anni, i primi a trovarlo furono la Octavius e il suo equipaggio di morti assiderati.

nave fantasma mary celeste

Il mistero della Mary Celeste

La nave fantasma sicuramente più famosa di tutti i tempi è la Mary Celeste. A più di un secolo dal suo ritrovamento avvenuto in condizioni davvero strane, alla deriva e senza alcuno a bordo, nel bel mezzo dell’Atlantico, il suo mistero è ben lontano dall’essere risolto.
La Mary Celeste, un brigantino a vela quadrata, lasciò L’East River di New York il quattro novembre 1872 diretta a Genova, con un carico di alcool grezzo. A bordo si trovavano il capitano americano Benjamin Spooner Briggs, di trentasette anni, l’ufficiale in seconda Albert Richardson e sette uomini di quipaggio. Ben riparate sottocoperta stavano la moglie del capitano, Sarah, e la figlia di due anni, Sofia.
Il 24 novembre Briggs registrò nel diario di bordo di trovarsi in vista delle Azzorre. Il tempo era di burrsca e parte della velatura venne serrata. Il mattino seguente annotò la posizione sulla nave.
Fu l’ultimo messaggio vergato nel diario.
Dieci giorni dopo il brigantino inglese Dei Gratia avvistò la Mary Celeste, mentre andava alla deriva senza meta. Tre componenti dell’equipaggio che salirono a bordo della misteriosa nave non trovarono anima viva.
Nella cabina del capitano Briggs videro l’armonium in legno di rosa della moglie con un foglio di musica sul leggio, come se qualcuno si fosse interrotto a metà di un pezzo. La macchina da cucire era sul tavolo. I giocattoli della piccola Sofia erano ordinatamente riposto. Negli alloggi dei marinai la biancheria era appesa ad asciugare su un filo. i vestiti erano distesi sulle cuccette, asciutti e in ordine. In cambusa tutto sembrava pronto per la colazione, anche se solo metà dei coperti sembrava che fossero stati serviti. il capitano Morehouse, ben conscio del valore di recupero dell’imbarcazione, decise di trainare la Mary Celeste. Mentre facevano rotta per Gibilterra, ebbe modo di ripensare a quel misterioso ritrovamento. Come avanzava ipotesi per risolvere l’enigma della Mary Celeste, così trovava argomenti per scartarle.
Morehouse all’inizio era convinto che la nave fosse stata abbandonata durante una tempesta. Ma allora perché nella cabina del capitano c’era una bottiglia aperta e non rovesciata di sciroppo per la tosse, come pure stoviglie e oggetti intatti?
Forse un ammutinamento? Non c’era traccia di lotta, e perché poi gli ammutinati avrebbero dovuto abbandonare la nave assieme alle loro vittime?
La nave forse aveva cominciato a imbarcare acqua? C’era quasi un metro d’acqua, ma questo era normale dopo dieci giorni di mare per una qualsiasi vecchia nave costruita in legno.
Nove barili di alcol erano intatti e asciutti, ma un altro era stato aperto. l’equipaggio si era forse ubriacato e dato alla razzia? Ma sottocoperta tutto era in perfetto ordine. In effetti non vi era traccia di panico o allarme. Uno degli ultimi gesti compiuti dal capitano Briggs era stato quello di aprire il suo uovo sodo e di lasciarlo lì sul piatto.
Mala domanda più elusiva era questa: come era riuscita la Mary Celeste a restare in rotta senza un equipaggio per 10 giorni e 500 miglia? Quando la Dei Gratia aveva incrociato la nave del mistero, il capitano Morehouse stava navigando da bordata a babordo. La Mary Celeste stava bordeggiando invece a tribordo. Era impossibile che la nave avesse navigato così a lungo mantenendo una velatura del genere. Qualcuno doveva essere rimasto a abordo dopo l’ultima voce registrata nel diario di bordo.
Il capitano Morehouse trainò la Mary Celeste fino al porto di Gibilterra il 13 dicembre. Dopo un’inchiesta pubblica poco conclusiva, a lui e ai suoi uomini venne concesso il premio in denaro che avevano chiesto.
La nave fu riattata e venduta. Ma il suo destino restò segnato. I marina si rifiutavano di imbarcarsi, perché credevano che la nave fosse maledetta. Passò di mano in mano per ben diciassette volte prima di incagliarsi e affondare contro una barriera corallina al largo di Haiti nel 1884.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *